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Un Bambino a Terezìn

Un Bambino a Terezìn

di Vittoria Caso

“Quando finì quella guerra che per tutta la mia fanciullezza si era protesa come un serpente velenoso, mi sembrò che stesse sopraggiungendo una nuova era, nella quale sarebbero finite tutte le ingiustizie e le sofferenze; senza che ne fossi consapevole, desideravo tornare alla condizione dei concetti immacolati e della fiducia nell’amorevole essenza del mondo, nella quale il bene prevale sul male e la verità vince sempre”.

Queste parole di Ivan Klima tratte da Il gioco della verità ci riconducono agli anni difficili e drammatici della persecuzione di cui furono oggetto gli ebrei. Molti sono gli scritti in cui lo scrittore ceco narra attraverso parole spassionate la sua testimonianza relativa a questa pagina buia della storia dell’umanità.

Un bambino a Terezin è un testo antologico, in cui sono raccolti brani autobiografici, tradotti da Maria Teresa Iervolino, tratti da alcune significative opere di Klima. Pubblicato nel 2020 dalla Iod è un contributo molto interessante alla commemorazione dell’anniversario della liberazione, da parte dell’armata rossa, dei campi di concentramento nell’Europa centro-orientale, in particolare quello di Auschwitz Birkenau, il 27 gennaio 1945.

Ivan Klima, oggi novantenne, nacque a Praga da una famiglia di origine ebraica. Aveva 10 anni e il suo fratellino solo tre quando fu internato con la sua famiglia per 4 anni, nella città fortezza di Terezin, campo di concentramento a circa 60 km da Praga, destinato allo smaltimento degli ebrei per i campi di sterminio dell’Europa dell’est. [1]

Dal dicembre 1941 al maggio 1945 vive qui, fin quando le truppe sovietiche, giunte a Terezin, liberano i pochi sopravvissuti. Ancora oggi, dopo tanti anni, quando i ricordi affiorano prepotenti, nella mente dell’autore scorrono immagini vive e strazianti; rivive gli efferati delitti commessi dall’uomo sull’uomo, i tanti crimini che hanno colpito senza pietà genitori, amici, fratelli: “Fino a oggi, ancora dopo più di 60 anni, mi ricordo nei dettagli di quel giorno in cui mi trovavo dietro il recinto abbattuto che fino al giorno prima mi sembrava invalicabile se non per un viaggio che sarebbe stato probabilmente l’ultimo per me e guardavo esaltato avvicinarsi da tutte le parti le colonne interminabili dell’armata rossa, cavalli stanchi, soldati stanchi, carri armati sporchi, automobili e cannoni. Per prima cosa vidi i ritratti del Maresciallo Stalin, un uomo il cui nome per me è stato associato per alcuni anni proprio a quell’istante di massima felicità. Stavo nella schiera dei prigionieri che salutavano con le mani i soldati e singhiozzavo per la consapevolezza di essere libero, di essere vivo, di avercela fatta”.

Il sottotitolo di Un bambino a Terezin è eloquentemente Racconti dal campo: passi scelti accuratamente dalla prof.ssa Iervolino in modo da focalizzare la drammaticità dell’esperienza del ghetto.

Le cicatrici indelebili nell’anima dello scrittore accrescono il valore documentario dei racconti ambientati a Terezìn, da cui emerge la sofferenza, l’angoscia, la tristezza di quella vita ma anche l’amicizia, la solidarietà, i sentimenti puri che nascevano tra i prigionieri. In La vita dei bambini a Terezin, brano tratto da Il mio secolo pazzo, Klima racconta: “Giocavamo anche a palla avvelenata e a campana, rubavamo anche, qualche volta il carbone ed eccezionalmente le patate dalla cantina. I tedeschi avevano portato via tutti i miei amici. Mi ricordo i loro nomi, i volti li ho dimenticati. Comunque oggi avrebbero tutti un altro aspetto, soltanto che non hanno avuto il tempo di invecchiare, di diventare adulti. Di amici veri ne ebbi solo uno.  Arie, era il figlio del presidente del consiglio degli anziani, quindi il più autorevole di tutti gli internati… il primo vero amico è come il primo vero amore, una persona desidera la presenza del suo compagno, vuole sentire la sua voce, vuole parlare con lui di tutto ciò che considera importante…Arie aveva anche qualche libro che mi prestava, uno di questi trattava anche la storia ebraica. Di questa, allo stesso modo della religione o dei Santi ebraici, non avevo idea, mentre Arie sapeva tutto, era stato allevato nella devozione.

Sapeva tanto della vita nei villaggi ebrei in Palestina, dove suo padre andava, dove si erano trasferiti per un po’ e dove soprattutto sarebbero immigrati subito dopo la guerra, poiché il suo papà pensava che lì sarebbe nato il vero stato ebraico. Trascorrevamo insieme molto tempo, i dettagli mi sono sfuggiti. Mi sembrava che a differenza degli altri che erano scomparsi in luoghi sconosciuti là dove li avevano trasportati i convogli, Arie non sarebbe sparito, dal momento che suo padre occupava un posto così importante. Mi sbagliavo. Andarono via, non con un trasporto comune, un giorno all’improvviso venne ad accomiatarsi da me. Mi diede una sua fotografia perché non mi dimenticassi di lui… gli dissi che non sarei riuscito a immaginare qualcosa del genere, tranne che ci saremmo incontrati di nuovo, ovunque fossimo vissuti. Dopo la guerra ho avuto la sua fotografia sulla scrivania per alcuni anni, fino a che la mamma che non sopportava niente che le ricordasse Terezin, in mia assenza non la prese e la distrusse. Arie non ritornò, soltanto dopo anni lessi che non era finito nel gas, ma che lui, con i suoi genitori e sua sorella, erano stati fucilati.”

Ho voluto riportare questo passo, magistralmente tradotto dalla Iervolino, proprio perché evidenzia la sincerità dei sentimenti dei bambini, che rimaneva tale anche in un ambiente ostile quale un campo di concentramento. Il bisogno di amicizia, il desiderio di relazionarsi e di confrontarsi con i coetanei era vivo e degno di rispetto ma il momento storico non dava spazio ai sentimenti.

Da adulto, nella Cecoslovacchia comunista, Ivan Klima[2] a causa della censura non ha potuto pubblicare testimonianze e memorie. Solo nel 1989 dopo la caduta del regime ha potuto esprimere nei suoi scritti la drammaticità e la sofferenza di quegli anni. Una testimonianza chiara, cruda, nuda che deve essere divulgata tra le giovani generazioni; parole che incidono nella memoria con un marchio di fuoco lo sgomento e il dolore di centinaia di uomini e donne, bambini e bambine disumanizzati, trasformati in numeri, trucidati prima con l’arroganza, l’ignoranza, il dogma, poi col gas.

E all’inferno dei campi di sterminio, delle torture, dell’annullamento della dignità della persona umana, i nostri giovani, i nostri alunni, stentano a credere.

Dopo lo sterminio degli ebrei altre atrocità sono state commesse e se ne commettono ancora oggi, meno note, ma non per questo meno gravi.

Ricordare è necessario per formare cittadini consapevoli, in grado di apprezzare la libertà e la democrazia: beni preziosi da tutelare e di cui fare buon uso per costruire un futuro migliore.

[1] (Theresienstadt), Terezìn era una città cecoslovacca, edificata nel 700 dall’imperatore Giuseppe II. La sua planimetria, comprendente 12 bastioni disposti a stella, suggerì ai nazisti di utilizzarla come ghetto cintato, in cui far sostare gli ebrei prima di inviarli ai campi di sterminio. Qui furono rinchiusi circa 15.000 minori ebrei tra il 1941 e il 1945, di cui sopravvisse il 10 per cento. Nonostante la fame, le malattie e le privazioni, hanno lasciato tracce sorprendenti della loro creatività e voglia di vivere: disegni, racconti, poesie, musica. Molti di questi disegni si trovano nel Museo Ebraico di stato di Praga.

[2] Nato nel 1931 come Ivan Kauders da genitori ebrei non-religiosi, vive la difficile esperienza dei bambini dell’Olocausto, da quando nel marzo 1939 Praga è annessa alla Germania nazista. Nel 1941 l’intera famiglia fu deportata nel campo di concentramento di Theresienstadt (Terezín), fino alla liberazione nel maggio 1945 ad opera delle truppe sovietiche. Di questo tragico periodo lascerà un ricordo dettagliato in un memoriale pubblicato nel 1993 dalla rivista inglese Granta. Nel dopoguerra la famiglia modifica il proprio cognome da Kauders a Klíma.