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Black History Month, la necessità di un mese per l’accoglienza nell’era delle migrazioni

Black History Month, la necessità di un mese per l’accoglienza nell’era delle migrazioni

Febbraio è nell’immaginazione di molti come il mese del carnevale, di San Valentino e di Sanremo ma, almeno nel mondo anglosassone, questo è anche il Black History Month: un periodo durante il quale si racconta e ricorda la storia dei popoli africani deportati in Europa e nelle colonie americane e il contributo, tutt’altro che indifferente, che questi hanno portato alla storia.

Se in un primo momento questa può sembrare un’iniziativa lontana dal contesto italiano e la cui imitazione sembrerebbe solo una gran pagliacciata, è necessaria una più attenta analisi alla nostra comunità nazionale e al suo veloce cambiamento. Ecco perché in questo articolo saranno proposte  alcune tesi a favore di una maggiore visibilità del Black History Month anche nel nostro paese: 1.159.290 è circa il numero di afro-italiani presenti in Italia, un numero in costante crescita sia per gli immigrati che vengono dal Mediterraneo o dai Balcani (dove affrontano un percorso chiamato The Game in riferimento alle tutt’altro che alte probabilità di riuscita) che dai figli della comunità nera già residente qui. Sono ragazzi che spesso stupiscono per i marcati accenti regionali e una spiccata volontà di essere chiamati italiani in quanto è ciò che sono: italiani dalla carnagione scura. Eppure proprio questo riconoscimento viene spesso negato loro a causa non solo di un clima di diffidenza generato da una martellante propaganda politica, ma soprattutto da due grandi assenti all’appello delle leggi necessarie in questo paese: lo “Ius Soli” e lo “Ius Culturae”, due piccolezze a livello legislativo ma due giganti nel campo dei valori che uno Stato pluralista, come l’Italia ama definirsi, dovrebbe avere. Queste norme riconoscerebbero come cittadino italiano chiunque nasca su suolo italiano o vi completi un percorso di studi. Inutile precisare come ciò, oltre alla già citata necessità morale, porterebbe ad uno Stato, sempre più anziano, nuove nascite (è infatti noto come le classi sociali a cui appartengono i migranti sono tra le più ‘produttive’ per quanto riguarda le maternità) e brillanti menti (è di poco più di due anni fa la toccante storia di un bambino del Mali morto nella traversata del Mediterraneo con un’ottima pagella cucita sui vestiti per non perderla).

Per aprire  le braccia anche a ciò, è necessario far conoscere meglio la storia e la cultura di coloro che vengono nel nostro Paese per scongiurare quel clima d’odio che aleggia nei bar di quartiere, nelle strade di provincia e negli appartamenti del centro. Atteggiamenti di diffidenza, quando va bene, e di aperto contrasto quando va peggio, da parte di coloro che ancora sono rimasti ai luoghi comuni e alle ideologie pericolosissime in una società multi-etnica come quella presente nel nostro Paese. Non mi dilungherò nemmeno sul nutrito elenco di vittime di questo clima di razzismo e presunzione di superiorità razziale, che collega con un triste filo rosso l’aggressione a Daisy Osake, atleta azzurra che porta alto il nostro tricolore dovunque nel mondo e il brutale pestaggio di Willy Monteiro in quella calda estate, forse troppo velocemente dimenticata. E in ciò consiste la più che doverosa missione che spetta a noi generazione Z: quella di forzare la nostra società all’abbandono di questi pregiudizi.
Quale miglior modo se non partendo proprio da coloro che le subiscono?

Abbiamo molto di cui scusarci e per questo non bisogna collocare sotto il tappeto il nostro periodo coloniale, fatto di campi di detenzione, deportazioni e massacri ingiustificati come quello dell’altopiano dell’Ambaradan, dove l’esercito italiano, bombardò con armi chimiche illegali la popolazione civile provocando 6.000 morti e il doppio di feriti. Dunque raccontando dei crimini perpetrati su queste popolazioni si potrebbe ottenere anche un minimo riscatto morale.
Il Black Historiae Month appena trascorso, ci invita ad instaurare un costante dialogo sulla cultura di coloro che provengono da ‘fuori’ e sulla loro situazione, che ci è più vicina che mai.

Lorenzo D’Auria